La sento, è di nuovo lei. È la tipica sensazione da domenica pomeriggio. Quell’insopportabile atmosfera sospesa, pigra, vuota. L’attesa di qualcosa di imprecisato che attira su di sé tutta l’attenzione, senza lasciare energie per poter pensare al resto.
Almeno questa volta è l’ultimo giorno di ferie. Almeno posso prendere lui come scusa e dire che è tutta colpa sua. Ma non sono credibile. Quest’ultimo anno mi ha reso più bravo a mentire, ma non abbastanza. Non è colpa dell’ultimo giorno di ferie. È colpa mia.
Un anno fa contavo con impazienza i secondi che mi separavano dalla mezzanotte per poter finalmente mandare a fanculo tutto quello che era successo, tutto quello che avrei voluto tanto lasciarmi alle spalle, per poter ricominciare. Ora è passato un altro anno, ed è tutto così sfortunatamente uguale e così sfortunatamente diverso che è difficile crederci.
In questi mesi ho utilizzato tutte le energie che potevo spendere per fare alcune cose, poche in realtà, di fondamentale importanza. Ho raccolto macerie. Tante, tantissime, innumerevoli. Instancabilmente, ho approfittato di tutti i momenti liberi per riempire camion e camion di macerie, partendo dalla periferia, per liberare le strade principali. Uno dopo l’altro, poco a poco ho liberato un tratto di strada, poi un altro, poi un altro, fino a raggiungere un quartiere. Poi è arrivato l’esercito. Tante mani amiche, volenterose, che mi hanno aiutato a smuovere un sacco di detriti. Nei quartieri il lavoro si è intensificato: senza badare troppo a cosa ci fosse in giro, con le ruspe sono stati raccolti i pezzi di me che c’erano, e caricati su altri camion. Lentamente, uno dopo l’altro, l’esercito li ha fatti sfilare lungo la strada appena riaperta, fuori, verso la discarica.
Non lo so neanche io cosa ho perso con questa operazione: non ho potuto davvero mettermi a fare l’inventario di cosa stavo mandando al macero, perché ci sarebbe voluto troppo e perché sarebbe stato solo doloroso. Senza guardare, con la pala, sgomberavo un quartiere dopo l’altro. Ne ho liberati alcuni, non saprei dire quanti, tutti quelli che ho potuto. Mi sono costati fatica, sudore, lacrime, ma li ho liberati. È stato approntato un campo base. Sono stati prodotti nuovi piani a breve termine, tutte cose poco impegnative, così quando una zona era stata sgomberata, uno dei progetti approvati poteva subito essere messo in cantiere. Poche e senza importanza, ma ogni tanto una tenda o una piccola struttura prefabbricata iniziava a spuntare dal grigio e frastagliato profilo della mia città.
E per ogni piccolo edificio in legno che veniva eretto, qualche cumulo di macerie da qualche altra parte crollava ancora, causando l’interruzione delle operazioni per valutare i danni o per sgomberare di nuovo una strada che era già stata liberata.
Per ogni progetto, un contrattempo e per ogni piccolo successo, un fallimento. Quest’anno è stato tutto un susseguirsi di buone e cattive notizie, un’altalena di emozioni che non ha raggiunto alcuna soluzione.
Dopo tutto questo sudore, dopo tutto questo faticare e dopo tutto questo soffrire, mi guardo intorno e vedo comunque un cimitero di palazzi accartocciati, di ponti spezzati, di strade ingoiate da voragini. Ogni tanto fa capolino un timido tetto in legno, piccolo seme di speranza in questa vasta pianura di resti, che mi ricorda che niente è perduto, e che non è ancora tempo di riposarmi.
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