In tempi recenti mi sono reso conto di come tutti i traguardi che ho raggiunto e che ad amici e parenti sono sembrati “straordinari” e che a me invece non apparivano affatto fuori dal normale, dipendessero da una cosa che io avevo e che altri invece non avevano.
Non lo dico per vantarmi, perché non si è trattato di qualcosa che io abbia ottenuto con fatica e che quindi mi sia meritato, è stato davvero un colpo di fortuna che io l’abbia avuta, e mi dispiace, veramente, per chi invece non ce l’aveva. Non è una cosa che uno ha in maniera innata, la incontra durante la vita, chi prima e chi dopo, e come succede per tutte le cose che uno dovrebbe incontrare durante la vita, qualcuno non la incontrerà neanche mai. E questo mi dispiace, perché come tutte le cose che uno può incontrare o meno durante la vita, e che sarebbe bene che tutti incontrassero, è profondamente ingiusto che il poter incontrare questa cosa o meno sia in mano ai dadi, alle carte, al destino, o a come volete chiamare Dio.
E mi dispiace per un secondo motivo: perché per anni mi sono battuto per combattere un pensiero abbastanza comune, che professava la presenza di qualcosa di speciale nelle mie azioni, qualcosa di soprannaturale, di raro, per cui quello che potevo fare era magicamente più facile da fare per me piuttosto che per gli altri. L’ho combattuto perché è una spiegazione troppo di comodo che i miei amici potevano usare quando non riuscivano a fare qualcosa, perché nessuno di loro aveva niente in meno rispetto a me, perché sapevo che anche loro avrebbero potuto fare quello che facevo io e perché volevo che lo facessero anche loro. Alla fine mi sono dovuto arrendere al fatto di avere torto: sì, avevo qualcosa che gli altri non avevano. E in barba a tutta la meritocrazia che ho sempre cercato nella scuola come nell’università e nel lavoro, non avevo neanche fatto niente di speciale per meritarmelo: avevo solo avuto la fortuna di inciamparci sopra, un giorno molte vite fa.
È successo così tanto tempo fa che me ne ero anche dimenticato, ero convinto di averla sempre posseduta, e invece pensandoci bene ci sono proprio inciampato sopra una sera. Ed è un oggetto talmente piccolo e comune che non credevo potesse fare così tanta differenza. Anche perché è veramente pieno il mondo di queste cose, ce n’è letteralmente una ad ogni passo, quindi non gli davo tanta importanza.
Io avevo una bussola, e gli altri no.
Che poi non è neanche vero, non ero l’unico ad avere una bussola, tantissime persone ne hanno una. Però non tutti. E forse tra le persone che frequentavo all’epoca, complice la gioventù, ero uno di pochi ad averla. Ma non faceva differenza, perché chiunque avrebbe potuto averne una se l’avesse voluta, bastava chinarsi a raccoglierne una da terra, come avevo fatto io. E di nuovo, complice la gioventù, pensavo semplicemente che agli altri non servisse una bussola, oppure che non gli interessasse averne una. In alcuni casi magari era anche così, ma mi sono reso conto poi che sebbene sia molto facile imbattersi in una bussola, è molto difficile imbattersi in una che valga la pena raccogliere. Oppure che, essendocene così tante, è difficile scegliere quale raccogliere. Oppure ancora, che essendocene così tante, è possibile voler cambiare idea, e raccoglierne una posando quella che già si ha. O anche tenerne due o tre, insomma le possibilità sono molte.
Ma di nuovo, all’epoca non avevo realizzato niente di tutto questo: quella era solo una bussola, e il fatto che io ce l’avessi e gli altri no non cambiava niente per me. Una bussola è un pezzo di ferro dentro un altro pezzo di latta. A me le bussole sono sempre piaciute: mio nonno ne aveva una e mi ci lasciava giocare da piccolo, ma come può una bussola fare differenza nella vita di tutti i giorni? Come può un pezzo di ferro essere determinante al punto di condizionare quello che una persona può fare oppure no? Era solo una bussola, e non vedevo neanche l’ombra di una connessione tra il poter fare le cose che riuscivo a fare l’avere una scatoletta di latta in tasca.
E questo perché, come il proverbiale stolto, stavo guardando il dito invece della luna.
La bussola non è importante perché è un pezzo di latta né perché uno se la tiene in tasca o legata al collo. Anzi, la bussola non è proprio affatto importante per sé, la bussola è importante perché se esiste la bussola, e se girandola rimane sempre puntata verso la stessa direzione, allora in quella direzione c’è qualcosa. E non un “qualcosa” qualunque, ma qualcosa di grande, splendente e luminoso: la Stella Polare. Ed in questa vita le bussole non puntano tutte alla stessa Stella, ma al contrario, ognuna ne indica una diversa.
E guardandolo da questo punto di vista è vero: avere la bussola fa una grande differenza nella vita di tutti i giorni. Come prima cosa, la sola esistenza della bussola ci assicura la presenza della Stella Polare. E non è una cosa da poco. Uno non va a dormire la sera allo stesso modo sapendo che c’è la Stella Polare: è un punto fisso, è una sicurezza, è una certezza non da poco, che il giorno prima non sapevi ci fosse, e il giorno dopo invece sì. La seconda cosa fantastica della bussola è che oltre a dirci che la Stella Polare esiste, ci dice anche da che parte sta. Il fatto che ci dica in che direzione si trovi non è automaticamente una garanzia di successo, perché non è affatto detto che basti seguire l’ago della bussola dritti come una linea per arrivare alla Stella Polare. Anzi, tutto il contrario: sicuramente ci saranno degli intoppi lungo la strada, delle montagne insormontabili da aggirare, o forse dei fiumi da guadare o un burrone su cui stendere una fune per poterlo attraversare. In alcuni casi, purtroppo, potremmo scoprire che la destinazione indicata dalla bussola è irraggiungibile da tutte le direzioni, è isolata e remota, e il fatto che esista non ci salverà o aiuterà in alcun modo, perché anche se esiste, noi non potremo raggiungerla. A quel punto si può provare comunque, abbandonare la bussola, o continuare il proprio viaggio un po’ a caso, ma portandosi la bussola per poter tornare ogni tanto nel punto più vicino alla meta, per poterla almeno guardare con un cannocchiale e vedere com’è fatta, chiedendosi come sarebbe una volta raggiunta.
Io avevo una bussola, avevo una destinazione da raggiungere, uno scopo nella vita. E, fortuna nelle fortune, non era in cima ad una montagna invalicabile, o sul fondo dell’oceano. Certo, non era neanche su uno scaffale di un supermercato e per quanto potesse essere raggiungibile, avrebbe comunque richiesto una bella faticata. Ovviamente io questo non potevo saperlo, tutto quello che sapevo era che la mia Stella Polare era di là, da quella parte. E quindi sapevo dove dirigermi: da quella parte.
Questo non rendeva magicamente più facile fare tutte quelle cose che riuscivo a fare e sulla cui facilità o fattibilità tanto ho discusso con i miei amici, ma le rendeva più importanti. Messo davanti ad una difficoltà, potevo lanciare uno sguardo alla bussola per capire se si trattasse effettivamente di qualcosa che valesse la pena affrontare, perché si frapponeva tra me e la meta. Messo di fronte ad un bivio potevo consultare la bussola per sapere se una delle due direzioni potesse portarmi più vicino alla mia Stella Polare.
Una bussola non è una cartina, ma è anche meglio di girare senza punti di riferimento, cercando ugualmente di arrivare dove uno vuole arrivare. Ammesso di sapere dove vuole arrivare.
Io lo sapevo. Sapevo dove volevo andare, e questo mi dava più forza, più tenacia, più determinazione, perché potevo sapere da subito che gli sforzi non erano vani, perché mi avrebbero permesso di avvicinarmi alla mia Stella Polare e che quindi avrei dovuto metterci tutto me stesso, perché ne valeva la pena più di ogni altra cosa.
La mia bussola mi ha portato attraverso foreste labirintiche, su pianure rigogliose, in cima a montagne molto alte e tra le strette pareti di molti canyon. Mi ha indicato la via tra le sabbie mobili e dato conforto in mezzo al deserto fino a portarmi ai confini della terra, dove inizia l’oceano.
Lì, su quella spiaggia, ho trovato la mia Stella Polare.
È facile riconoscerla una volta che ce la si trova davanti, e poi basta di nuovo consultare la bussola girandoci intorno: punterà esattamente lì. La Stella Polare era lì, davanti a me.
Ho tolto lo zaino e mi sono seduto ad ammirare la mia Stella Polare. Un forte vento proveniente dall’oceano spazzava la spiaggia, ma la mia Stella Polare mi riscaldava irraggiandomi con la sua luce. Non era un’ambiziosa gigante rossa, né una superba supernova: era piccola, ma bruciava come tutte le stelle, e soprattutto era la mia. Ora che finalmente l’avevo trovata, ho fatto la cosa più saggia che mi venisse in mente: mi sono fermato. Mi sono accampato vicino alla mia Stella e piano piano ho preso confidenza. Ho imparato che potevo toccarla senza bruciarmi, che potevo tuffarmici dentro come Zio Paperone nel suo deposito ed essere protetto come un pesce pagliaccio nella sua anemone. Col tempo ho imparato che potevo usare la sua energia per migliorare la mia vita. Potevo avere luce quando ne avevo bisogno, potevo usare il suo calore per cucinare, potevo alimentarci una piccola casa.
Una sera ho scoperto che era leggera e che con un po’ di pazienza e di attenzione potevo anche spostarla. Ed è stato mentre correvo avanti e indietro con la mia Stella lungo la spiaggia, che ho incontrato una ragazza.
Mi sono presentato, e abbiamo stretto amicizia. Ho scoperto presto che anche lei aveva una bussola, ma la sua indicava l’oceano. Il suo viaggio non era finito su quella spiaggia e infatti lei era decisa a fabbricarsi una barca per andare per mare. Aveva un carattere forte e determinato, mi piaceva, così mi decisi ad aiutarla. Ho tagliato un po’ di legna, piantato qualche chiodo, teso qualche fune, raccolto un po’ di provviste per il viaggio. Una sera, mentre ci riposavamo riscaldati dalla mia Stella, mi sono accorto di un fatto molto strano. La mia bussola si era guastata. O almeno così sembrava. Non indicava più la Stella Polare che era sempre con me, ma era cocciutamente fissa verso l’oceano. Potevo ruotarla quanto mi paresse, ma lei continuava ad indicare un ignoto punto oltre l’orizzonte. Questo non era normale: le bussole non si riprogrammano, o almeno così credevo.
Abbiamo messo le nostre bussole vicine, e ci siamo accorti che indicavano nella stessa identica direzione. Eppure io una Stella Polare già ce l’avevo, quindi che cosa stava indicando la bussola questa volta? Dove mi avrebbe condotto? Apparentemente dov’era diretta anche la ragazza della spiaggia. Ben presto la decisione fu presa, e così abbiamo ripreso a lavorare sulla barca, questa volta con un nuovo progetto: non più un piccolo natante, ma un vero e proprio veliero. Ci è voluto del tempo e anche diversi sacrifici. Tutto il tempo che avevamo a disposizione lo abbiamo impiegato per costruire la nostra nave. Non doveva essere un transatlantico, ma non sapevamo neanche quanto tempo saremmo dovuti stare per mare. Non sapevamo quanto sarebbe stato faticoso e non sapevamo quanto sarebbe durato, e a pensarci bene non sapevamo proprio niente, a parte il fatto che volevamo andare entrambi in quella direzione, e che avremmo fatto tutto quello che era in nostro potere per raggiungere la nuova meta.
Entrambi pensavamo di sapere che cosa avremmo trovato in mezzo all’oceano. Credevamo che avremmo trovato la felicità, ad attenderci. La felicità di una vita insieme, la felicità di stabilità, la felicità di una famiglia, di una casa. E con questa idea, abbiamo continuato a sgobbare notte e giorno per un anno, per preparare la nostra nave al viaggio. Abbiamo cercato provviste, raccolto materie prime e utensili per tutte le evenienze che ci sono venute in mente, abbiamo preso ricambi e raccolto consigli da chi ce li poteva dare. Abbiamo ricevuto aiuto e fatto di testa nostra, finché ad un certo punto siamo giunti alla conclusione di essere pronti a salpare: un’ultima notte sulla spiaggia ci separava dal nostro grande viaggio, insieme. Il sonno era agitato, come sempre prima di una partenza.
La mattina successiva riservava una dolorosa e affilata novità. Il letto, a parte me, era vuoto: lei non c’era. Eravamo andati a dormire insieme e come tutte le notti da due anni a questa parte lei aveva dormito appoggiata sul mio petto, nascondendo il naso nel mio collo, in quello che chiamava “il suo buchetto”. Non c’era lei, non c’era la sua bussola sul comodino, non c’erano i suoi vestiti. Non sapevo dove potesse essere, ma la mia fiducia nei suoi confronti era così tanta che ho persino pensato che si fosse allontanata per prepararmi qualche genere di sorpresa, così mi sono alzato per uscire dalla casa in riva all’oceano per raggiungere il molo lì di fronte e salire sulla nostra nave. Ma una volta aperta la porta mi sono accorto che anche la nave era sparita.
Ho vagato per giorni a piedi intorno alla casa sulla spiaggia, senza meta e senza scopo, nell’attesa che lei tornasse, che qualcosa succedesse, che tornasse la felicità. L’unica spiegazione possibile era che si trattasse di un brutto sogno. Ho sperato di stare sognando. Ho pregato di stare sognando, e di potermi svegliare sul serio. Ogni giorno aprivo gli occhi sperando di ritrovarla beatamente addormentata tra le mie braccia. Tranquilla, rilassata, sorridente, bellissima. Ogni giorno aprivo gli occhi e portavo a me le braccia senza raccogliere niente, senza raccogliere lei, ritrovandomi nello stesso incubo.
La mia stella brillava sempre meno, fioca, tremula, quasi fredda. Non bastava per riscaldarmi o per farmi luce la sera, la casa sulla spiaggia era vuota e buia, mentre il caos gradualmente ne confondeva le stanze. Non mangiavo, perché non avevo voglia di cucinare, e ancora meno avevo fame. Non uscivo, perché non c’era nessun posto in cui valesse la pena andare. Non vivevo, perché avevo dimenticato come si facesse. Dormivo, quello sì, perché speravo di potermi svegliare, finalmente, l’indomani, fuori da questo terrificante incubo nel quale ero rimasto intrappolato.
La bussola era rotta, questa volta per davvero: il vetro era in frantumi, e l’ago aveva perso il suo magnetismo e ora invece di puntare con vigore verso il centro dell’oceano, si lasciava posizionare in qualunque direzione senza opporre la minima resistenza. Non solo avevo perso la bussola, ma avevo perso anche la nave, quando fino al giorno prima passavo ore ed ore sul ponte a guardare l’orizzonte accarezzandone il timone, pensando a come sarebbe stato attraversare le acque della vita.
Non ero certo più un uomo, ormai. A volermi fare un complimento mi si sarebbe potuto tutt’al più definire un mucchio d’ossa tenute insieme da un Dio che non se la sentiva neanche di finirmi, e che mi aveva abbandonato lì su quella spiaggia a contare i giorni passare, a fare finta di vivere, sentendomi continuamente morire.
Lascia un commento